Fonte: Vestioevo.com
Con l’avvenire del Duecento i miglioramenti della tecnica nell’abbigliamento si notarono soprattutto nei tessuti, le arti decorative dimostrarono un notevole progresso.
Il ricamo era noto con il nome di “acupictus” che stava ad indicare un vero e proprio dipinto con l’ago, questo significato era ampiamente giustificato dalla raffinatezza e dalla complessità delle composizioni sui tessuti di questo periodo, fin dall’età bizantina il ricamo era considerato una vera opera d’arte.
Stoffe e abiti avevano un alto valore economico. Era considerato un grande onore ed era una cosa ambita ricevere in dono abiti, tessuti o altri capi d’abbigliamento; come tra i signori c’era l’usanza di donare come compenso abiti a vassalli e a valvassori, così tra le donne c’era l’abitudine di donare gli abiti alle ancelle o vesti smesse alle serve, fra gli abiti donati dalle donne c’era anche quello della dama verso il cavaliere o della fidanzata verso lo sposo.
Mentre le donne dei ceti più bassi sopra alla tunica si legavano in vita grandi grembiuli per il lavoro, le dame portavano sui fianchi preziose cinture dove appendere “sacchetti” ricamati, con gingilli, fermagli, forbicine e ampolle di essenze, ma anche libretti di preghiera o romanzi cavallereschi o d’amore preziosamente miniati.
Le donne cantate dai poeti rappresentavano la bellezza, descritte con mani bianche, volti pallidi, capelli curati, membra rosate a dimostrazione del fatto che non avessero mai compiuto lavori manuali; quando dovevano viaggiare, si avvolgevano accuratamente in veli e ampi mantelli, coprendosi il volto con larghi cappelli in feltro o in paglia, preoccupate di perdere il loro pallore, segno inconfondibile della loro appartenenza aristocratica.
Testimonianza della bellezza femminile la si trova nella raccolta “De ornatu mulierum” sui cosmetici delle donne, tra il XII e il XIII secolo, quando nella Scuola Medica Salernitana dell’XI secolo, la famosa dottoressa Trotula De Ruggiero si occupava delle donne, studiando e sperimentando unguenti, bagni salutari, cosmetici femminili, preoccupandosi di valorizzare la salute e la bellezza delle donne, o nel “De passionibus mulierum ante in et post partum” cioè una raccolta di cure contro la sterilità e l’aborto e di assistenze alle partorienti riportate nei secoli avvenire nella “Collectio Salernitana” di Salvatore De Renzi.
In tale contesto si inserì il primo trattato di cosmetica della storia datato all’inizio del XIII secolo, ritrovato a Madrid, il “De Ornatu Mulierum” sui cosmetici delle donne comunemente noto come “Trotula Minor” della dottoressa Trotuga della Scuola Medica Salernitana.
All’inizio del secolo le donne si presentavano con una lunga tunica la cui stoffa ricadeva a terra dando una parvenza di strascico, anche nelle classi meno abbienti, il modello dell’abito non cambiava, rimaneva abbondantemente lungo, anche il soggolo (copricapo femminile) era indossato dalle donne operaie.
Gli enormi polsini del “bliaud”, della fine del XII secolo, scomparvero per lasciare spazio ad altri aderenti mantenendo la manica abbastanza ampia sul resto del braccio e fermata dal gomito al polso con bottoni, gioielli che si diffusero con la metà del XIII secolo, che ben presto venne sostituita da una manica aderente dalla spalla al polso; si trattava così di una lunga e semplice tunica chiusa al collo da una spilla e stretta in vita da una cintura che, a distanza di pochi anni venne sostituita da una lunga e sottile fascia annodata.
Cielo d’Alcamo conosciuto anche come Ciullo d’Alcamo (prima metà del XIII secolo), poeta e drammaturgo italiano, fu uno dei più significativi rappresentanti della poesia popolare giullaresca della scuola siciliana e nel suo noto “Contrasto” sottolineava la particolarità dell’abito lungo e sinuoso della donna amata.
Verso il 1230 la tunica si fece più aderente per essere completata dalla versione femminile della “cyclas” o del “surcot”. La, comunemente conosciuta, “ciclade” era una veste lunga, senza maniche, da indossare direttamente sulla tunica, aperta dall’ascella al fianco e provvista di lacci in modo da poter raccogliere il tessuto sul dorso segnando le forme
La vera novità della prima metà del Duecento è la tunica che si allunga sul dietro a formare una sorta di strascico proibito durante la Quaresima da Papa Gregorio X (Piacenza, 1210 circa – Arezzo, 10 gennaio 1276) interdicendo alle donne cristiane “smoderati ornamenti” dando così inizio ad una “battaglia” nella quale le donne non rinunciarono facilmente alla bellezza delle vesti ricorrendo a tutte le astuzie possibili per salvaguardare il loro abito ad esempio attraverso l’uso di spille d’oro che raccoglievano l’eccesso di tessuto in vista degli agenti di controllo.
Durante la prima metà del Duecento le donne erano solite ad indossare un mantello come capo principale, il quale era lungo oltre la caviglia con un breve strascico. Il mantello ricopriva le spalle e veniva chiuso sul petto con un laccio o con una spilla circolare in modo da lasciare scoperto l’abito sotto; era confezionato con ricche stoffe ed in genere veniva bordato e guarnito con pellicce.
All’inizio del XIII secolo cambiarono acconciature e copricapi: le nubili avevano i capelli sciolti sulle spalle o trattenuti da un cerchietto e legati in trecce.
Quest’acconciatura non era adatta alle donne sposate le quali raccoglievano le loro chiome e una pezzuola di lino bianco, che copriva il capo, veniva fatta passare sotto il mento per essere annotata sulla testa. I veli, che potevano essere indossati in svariati modi, venivano confezionati con una stoffa di lino finissima conosciuta con il nome di “batista”.
Il “soggólo” era un copricapo composto da una benda o fascia larga che passando sotto il mento, da qui il nome soggolo (sotto gola), avvolgeva il viso e il collo unendosi alla sommità del capo fermato da una striscia rigida di lino attorno alla testa, appariva come una sorta di corona.